lunedì 11 agosto 2008

GUERRA FREDDA- ATTO II


Tensione massima nel Caucaso. Il conflitto sul campo tra russi e georgiani diventa guerra di nervi. Il presidente georgiano Saakashvili firma il piano di pace dell'Ue, Mosca non lo riconosce. Secco arriva il diktat del Cremlino che conferma le sue uniche condizioni per il cessate il fuoco: ritiro immediato delle truppe di Tblisi dall'Ossezia del Sud.

ABKHAZIA-RETROSCENA DAL FRONTE

Una striscia di terra stretta tra il Mar Nero e la catena montuosa del Caucaso. E' qui, in Abkhazia che si è spostato il fuoco del conflitto osseto tra russi e georgiani. Nel cuore dell'ex Unione sovietica si prospetta un altro Kosovo, forse...un'altra guerra che, su scala ridotta, potrebbe riaccendere un vecchio focolaio di tensioni ereditate dalla Guerra fredda. Ieri era con la minaccia abkhasa -russa quindi- di lanciare un'offensiva nella gola di Kodori, per liberarla dal controllo di un governo fantoccio georgiano, al potere dal 2006...Oggi lo spettro dell'Abkhazia diventa realtà: la repubblica georgiana separatista scende in campo. Ha dichiarato lo stato di guerra: dieci giorni di mobilitazione per tutti i riservisti.
Una regione persa tra unità nazionale agognata e spinte separatiste insoffocabili: questa è la Georgia.
Una questione che affonda le sue radici al 1930, quando l'Abkhazia finisce sotto il controllo georgiano. A dominare ci sono rivalità etniche e odio: abkhazi e russi da una parte e georgiani dall'altra. Dopo la caduta del muro di Berlino il separatismo abkhaso si arma, ma Tblisi non reagisce. Tutto calmo -o quasi- fino a quando, nel luglio del '92 a Sukhumi, capitale della regione, si vota l'indipendenza. Un'indipendenza mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Inizia lo sterminio, una vera e propria pulizia etnica perpetrata dai cosiddetti "fratelli dei boschi", i partigiani abkhasi che massacrano migliaia di georgiani. Questo è ciò che la storia ricorda, una pagina in cui la Russia post-comunista non è mai stata neutrale...

venerdì 1 agosto 2008

PERICOLO SCAMPATO


Crisi finita, ostacolo sorvolato per l'Akp e gli islamici di Erdogan. Secondo il verdetto della Corte di Ankara, il partito del premier non pregiudica la laicità dello stato. Democrazia vacillante? Forse sì. Bastava un voto in più: con sette preferenze, infatti, i giudici turchi avrebbero potuto garantire ai cittadini maggiore trasparenza sulle attività del partito al governo. Erdogan rischiava grosso e con lui anche chi, in Europa, lo vede come unico interlocutore per l'ingresso del paese nell'Unione.Ma la governabilità costa e questo è il prezzo pagato per stabilizzare la Turchia.
E' vero che quasi la metà dei turchi ha riconfermato alle ultime elezioni del 2007 il proprio consenso nei confronti di quelli che vengono definiti "islamici moderati". Forse per rientrare nei canoni occidentali, i quali ignorano totalmente la reale natura dell'Islam, professione fondata proprio sulla moderatezza: "Dio non ama gli eccessivi", recita il Corano.
Ma il partito di Erdogan non è affatto moderato. Anzi. Rappresenta degli ideali forse troppo conservatori per la Turchia di oggi. La democrazia nel paese rischia di essere seriamente minata da un regresso verso i principi islamici. A rivoltarsi nella tomba questa volta è Ataturk, fondatore della moderna Turchia, colui che gettò le basi per il primo e finora unico paese laico a maggioranza islamica.

Sei giudici su undici della Suprema Corte hanno votato per la chiusura dell'Akp, ma per metterlo al bando serviva la maggioranza qualificata e dunque un voto in più. Magra consolazione per chi sperava in uno smacco della Corte. Unica perdita per Erdogan e i suoi è stato il decurtamento dei finanziamenti pubblici al partito pari a metà dei fondi del Tesoro precedentemente assegnati al Partito per la giustizia e lo Sviluppo (Akp). Mentre la borsa di Istanbul festeggia per la crisi scampata, gli islamici moderati dovrebbero riflettere su questo ultimo salvataggio...un early warning, un avvertimento. Magari forse al loro prossimo errore la Turchia potrebbe essere finalmente democratica.

lunedì 28 luglio 2008

CRISI ALL'OMBRA DELLA MOSCHEA BLU

Paura a Istanbul. Lo spettro del terrore si è affacciato nella città turca, è già intervenuto con sospetto, ha seminato discordia. Nella notte di ieri la gente faceva i soliti acquisti quotidiani, passeggiava per le strade, lontana dal caos del centro storico e dai turisti. A Gungoren, quartiere periferico della città, i negozi erano ancora aperti intorno alle dieci di sera. E' parso il momento giusto per intervenire. Attentato, di quelli in piena regola. Fatto per colpire e uccidere. Un primo ordigno è scoppiato all'interno di una cabina telefonica; pochi minuti di intervallo, poi un'altro scoppio vicino a un cestino dei rifiuti. Urla, sangue, poi sirene e ambulanze. La strage era compiuta: le persone hanno cominciato a correre, cercando rifugio...scappavano il più lontano possibile dal luogo dove un ignoto aveva piazzato la bomba. Un testimone ha filmato tutto con il cellulare: in quelle immagini mosse e sfuocate è contenuta la crisi turca,il suo apice, la cui risoluzione ora non può essere più rimandata. I primi sospetti delle autorità sono caduti sul Partito dei separatisti curdi: forse una rappresaglia per vendicarsi degli attacchi compiuti nei giorni scorsi dall'aviazione turca contro le basi dei guerriglieri in territorio iracheno. O forse stavolta i curdi non c'entrano nulla. Il Paese sta vivendo un momento di profonda crisi istituzionale. Oggi sono stati avviate le trattative della Corte di giustizia per stabilire la costituzionalità del Partito nazionalista islamico al governo. Qualcuno sta pianificando davvero un colpo di stato per preservare la laicità fondante della Turchia voluta da Ataturk? O piuttosto è solo una strategia della tensione perpetrata dallo stesso partito del premier Erdogan per non essere allontanato dal governo? O ancora è al-Qaeda a seminare terrore nella nuova Turchia filo-europea?



L'intenzione dell'attacco era chiara. Quella dei movimenti politici nel Paese un po' meno. Intanto all'ombra della Moschea blu qualcosa sta per scoppiare. Disagio...e cos'altro ancora?

martedì 22 luglio 2008

VEGLIA AL CAMPO SANTO


Il massacro dei Balcani ha un volto. Ce l'ha sempre avuto, ma da oggi è dietro le sbarre. Radovan Karadzic è stato catturato. Faceva l'omeopata, aveva dimenticato i suoi trascorsi di boia, di mandante di un atroce delitto. E' stato il cinico protagonista di un conflitto devastante, di un crimine chiamato genocidio. Dal '91 al '95.Ora avrà ciò che merita.

Intanto le madri di Srebrenica vegliano ancora...per loro brucia la ferita di quell'11 luglio di tredici anni fa... Calpestano la terra intrisa del ricordo di quella terribile strage. Camminano fra le lapidi: sono mogli, madri, sorelle. Alcune cercano ancora una tomba su cui versare le ultime lacrime.

Da quella lontana estate del '95 sono state recuperate solo duemila salme...chissà quante le vittime. A Srebrenica gli uomini furono separati dalle donne: ragazzini, alcuni già vecchi...dai 14 ai 65 anni.. così come vollero i soldati di Mladic prima di compiere la strage. Poi, massacrati senza pietà.

Alcuni di loro riposano sotto quel cielo grigio di Bosnia, fra quelle lapidi bianche dove adesso le donne ricordano e gridano giustizia. Loro, sopravvissute e fuggite ai soprusi e alle violenze, aspettano ancora che i responsabili vengano puniti.

Hatidza ha perso il marito e due figli in quei giorni dell'orrore e racconta:" Io e tutte le vittime di quella strage temiamo che si perda troppo tempo, che sia troppo tardi prima che Karadzic possa essere messo alla sbarra. Come ne caso di Milosevic...per noi ha significato molto quel processo per genocidio"

E dal memoriale di Potocari si alza una preghiera...perchè riposino in pace..ma non senza prima aver avuto giustizia. Per sempre.

lunedì 21 luglio 2008

RISPONDERE AL FUOCO

Il conflitto ancora c'è: a Nilin, in Cisgiordania del nord, non si intravedono quei segnali di distensione paventati da Abbas e Olmert.

Ha gli occhi bendati, Ashraf. Delle sue radic e dell'impavido coraggio tipico dei palestinesi ha conservato una gran voglia di manifestare il suo dissenso. Ai soldati israeliani che lo vedono, però, la cosa non piace. Un ufficiale lo immobilizza. Un altro, in divisa, prende la mira.. e boom. Gli spara...beh, non fa nulla -avrà pensato- tanto il proiettile è di gomma. Invece Ashraf cade a terra, gli ha colpito la gamba.

Nilin non vuole arrendersi all'avanzata indiscriminata degli israeliani. La barriera di sicurezza che divide i territori palestinesi da Israele non dovrebbe inoltrarsi nella Cisgiordania del nord: tre anni fa una sentenza dell'Alta Corte Internazionale aveva scostretto le autorità di Tel Aviv a spostare quel dannato muro. Ma dal maggio scorso i soldati sono di nuovo lì, a Nilin, dove non dovrebbero esserci. Ashraf, come tanti altri, stavo solo esprimendo la sua rabbia. Pacifica. Tanto pacifica che a denunciare questo ennesimo sopruso contro civili è stata un'associazione israeliana per la difesa dei diritti umani: "B'Tselem" e i suoi militanti lavorano davvero. Per la distensione. Per fermare quel muro.
A riprendere tutto è stata una bambina, dalla finestra di casa.La telecamera con cui ha immortalato lo spettacolo di questa guerra e' una delle 100 distribuite ai palestinesi dalla Ong B'Tselem nell'ambito di "Shooting Back", un programma contro gli abusi
dei militari. "Rispondere al fuoco", insomma, "rispondere filmando".

sabato 19 luglio 2008

PEDINE DA GIOCO


Era il 4 novembra 1979...lo Shah era fuggito a gambe levate verso la sua amata America, Khomeini era tornato in Iran dopo quindici anni di esilio e i ruspanti rivoluzionari tutti islam e fucili decisero di fare scacco matto agli Usa. L'ambasciata americana a Teheran venne presa d'assalto da un gruppo di studenti universitari radicali: beffata la Cia, beffata l'amministrazione Carter, beffato il "grande Satana". Un atto di forza per dimostrare che neonata Repubblica Islamica stava già cambiando gli equilibri in medioriente, quello dei giovani rampolli di Khomeini. Tennero il mondo con il fiato sospeso per 444 giorni, sequestrarono 66 persone tra diplomatici, funzionari e guardie. Dimostrarono all'America che si stava insinuando una nuova forza, quella della folla, fomentata da slogan, religione e sogni di gloria. Una ricetta esplosiva che l'America non ha mai digerito.

Fra le ire fanatiche dei giovanotti in divisa verde di quel lontano '79 pare ci fosse anche Mahmoud Ahmadinejad, l'attuale presidente che con quell'aria mesta da bidello fa tremare tutti...anche gli iraniani. Oggi l'ex sequetratore siede al tavolo dei negoziati con i paesi del golfo, lancia invettive contro l'Occidente, sputa sentenze morali contro la sua gente, insegue il nucleare: sogna il potere.

L'epilogo di quei 444 giorni arrivò nel 1981, Reagan stava per insediarsi alla Casa Bianca: Carter pagò un prezzo molto alto per non aver risolto la crisi degli ostaggi. Ma i rapporti bilaterali Usa e Iran si erano dissolti in una guerra di nervi costata all'America 7 milioni di dollari, trasferiti sul conto di una banca di Teheran.

Era scontro allora, oggi è sadica tensione. Due pedine dello stesso scacchiere pretendono di delegittimarsi a vicenda. Sanno di non riuscire nell'ardua impresa, ma continuano.

Anche se qualcosa sta cambiando...segnali di distensione arrivano da qualche tempo...solo fumo?